Il linguaggio è considerato una caratteristica tipicamente umana ed un’attività consapevole, mentre in effetti presenta molti aspetti di automatismo. Una delle tecniche più consolidate con cui le parole impongono la loro tirannia, è la coppia semantica, cioè un accostamento di due termini che si trasferiscono significato l’uno con l’altro. La coppia semantica rende superflua la dimostrazione; anzi, argomentare diventa persino disdicevole, come se si aprisse il varco alla discussione sull’indiscutibile. Coppie semantiche storiche, ed ormai codificate e santificate, sono quelle di “libertà-Occidente” e di “dispotismo-Oriente”, attraverso le quali filtrare e banalizzare tutte le vicende dello scontro imperialistico. Un’altra coppia semantica consolidata è “giudizio-mercati”, che serve a delimitare il recinto effettivo delle libertà occidentali, poiché alla fine conta solo il “giudizio dei mercati”, ovvero di chi controlla i soldi. A differenza del giudizio elettorale, che è emotivo ed episodico, il giudizio dei mercati sovrintende costantemente alle azioni umane con l’alone del divino.
Il politicamente corretto passa quindi per una trasformazione del lessico ed un suo adattamento alle esigenze della gestione del potere. Una delle piccole ma significative varianti introdotte di recente, riguarda la composizione sociale. La coppia semantica che regna sovrana nella comunicazione corrente è: “famiglie e imprese”.
– Il nuovo governo si occuperà di famiglie e imprese;
– l’opposizione chiede più attenzione a famiglie e imprese;
– ci sono richieste che arrivano da famiglie e imprese;
Il mantra è diventato così invasivo che, se si eliminassero questi due termini dalla comunicazione televisiva, forse dovrebbe chiudere qualche canale. Ad onor del vero, va segnalato qualche tentativo sperimentale d’avanguardia (cittadini e imprese), o qualche sprazzo di fantasiosa originalità (imprese e famiglie, come dice Confindustria). La locuzione “famiglie e imprese” non fa parte soltanto del lessico politico e giornalistico, ma è assurta addirittura all’Olimpo dei “saperi” che regolano la società. Sul proprio sito la Banca d’Italia pubblica una “indagine su famiglie e imprese”. In Banca d’Italia non ci sono soltanto valenti scienziati economici e sociali, ma anche illustri poeti; infatti l’accostamento dei due termini crea suggestive catene di significati, per cui le immagini familiari di bimbi frignanti e nonnetti agonizzanti balenano nell’inconscio degli ascoltatori mentre Confindustria illustra i suoi desiderata per imprese e famiglie. Al confronto di tanta potenza evocativa e simbolica, persino Giovanni Pascoli ci farebbe la figura del poetastro dilettante.
Sono invece in seria difficoltà termini come “lavoratori”, o persino locuzioni come “ceti produttivi” (che pure una volta andava per la maggiore), a causa del loro intrinseco valore divisivo, e quindi da usare sempre meno. Davvero difficile ricorrere al termine “operaio”, che suona ormai piuttosto volgare e inopportuno, se non nel caso delle morti sul lavoro. La combattiva CGIL parla di “mondo del lavoro” (non divisivo), evitando il termine “lavoratori”, e facendo intendere che nel lavoro sono inclusi gli imprenditori. Il termine “disoccupati” va usato con estrema parsimonia, altrimenti denoterebbe un atteggiamento visceralmente negativo, ed anche corrivo nei confronti dei percettori del reddito di cittadinanza che scansano le innumerevoli offerte di lavoro che gli piovono addosso da ogni parte. Persino il compagno Fratoianni preferisce parlare di famiglie e imprese.
La coppia semantica “famiglie e imprese” è rassicurante e non divisiva, un tempo si sarebbe detto interclassista. Ci permette di capire che la famiglia di Benetton e quella di un immigrato hanno lo stesso bisogno di aiuto; che Amazon deve essere aiutata quanto e più di chi consegna le pizze a domicilio. L’idea che non ci sia contrasto di interessi tra ricchi e poveri, tra servi e padroni, tra sfruttati e sfruttatori, viene propagata da sempre negli USA; è lì infatti che è nata l’idea di organizzare la società intorno alla figura del “consumatore”, è lì che nascono le prime associazioni per la difesa del consumatore e le relative riviste, ormai diffusissime anche da noi. Il governo si fa carico di riconoscere e tutelare le associazioni dei consumatori, inquadrandole in appositi elenchi ufficiali.
La soggettività viene ricomposta nella capacità d’acquisto individuale; i bisogni indotti e l’istigazione al consumo, messi in atto da una pubblicità onnipresente, completano il quadro. La scomparsa o il ridimensionamento dei cosiddetti corpi intermedi come i sindacati e i partiti, rende praticamente inutilizzabile il termine classe, e quindi non ha più senso parlare di “lotta di classe”, anche se i ricchi ovviamente continuano a farla; ma si sa che quando i ricchi si fanno i fatti propri è per il bene di tutti; e se qualche povero si facesse venire dubbi a riguardo, vorrebbe dire che è afflitto da precise patologie, come il morbo dell’invidia sociale, oppure la paranoia complottista. I moralisti temevano che il consumismo facesse precipitare la società in un edonismo sregolato; invece ora scoprono con soddisfazione che è conciliabilissimo con l’etica punitiva del razionamento e dell’apartheid sanitario. Il problema è che la vituperata identità di classe a qualcosina serviva; quantomeno a farti intendere che coloro che stanno al vertice della gerarchia sociale coltivano la disuguaglianza come un valore irrinunciabile, come un invalicabile confine antropologico, per cui considerano i sottoposti meno degli insetti.
Prolifera e viene invece incoraggiato l’associazionismo “non divisivo”, e che non mette in discussione il dominio: possessori di auto d’epoca, proprietari di boa constrictor, produttori del tortello maremmano o della cipolla di Tropea. Tutti hanno il diritto di associarsi e difendere i loro diritti di consumatori, ma non di contestare le gerarchie sociali. Finalmente la class action è riuscita a sostituire la lotta di classe, configurando un idillio interclassista che sovrintende ad una folla di istanze ed aspirazioni diverse ma non contrapposte.
Finché si trattasse soltanto di contrabbandare la fiaba dell’idillio interclassista, ciò rientrerebbe nella fisiologica presa per i fondelli che ogni potere deve mettere in atto. Il problema è che la coppia semantica “famiglie e imprese” ufficializza e cronicizza lo stato di bisogno permanente nel sistema emergenzialista, per cui il “governo papà” starebbe sempre lì soccorrevole verso una società prostrata e mendicizzata, accattonizzata. Il bistrattato “assistenzialismo” diventa così un dato di natura, per cui si tratterebbe solo di meritarselo facendo i bravi bambini. Ai ricchi l’assistenzialismo e l’accattonaggio spettano di diritto, mentre più sei povero, più forche caudine devi superare.
I governi, con le lobby che li animano, combinano i loro casini come pseudo-pandemie, lockdown, aggancio dei prezzi delle materie ai titoli derivati, eccetera; si tratta di quegli stessi governi che poi sarebbero deputati a salvarci e ad indicarci la via del riscatto, con i loro mirabolanti “Decreti Aiuti” (altra coppia semantica fortunata e probabilmente in via di consolidamento), imponendo alle vittime di affidarsi ai loro carnefici. Qualcuno parlerebbe impropriamente a riguardo di “Sindrome di Stoccolma”; ma questa espressione si riferisce ad un episodio del 1973, nel quale due sbandati presero in ostaggio degli impiegati di una banca. La compassione di quegli impiegati nei confronti della tragedia umana di chi li stava sequestrando, semmai fa loro onore. Al contrario, affidarsi a chi ha fatto del sadismo un programma politico, appare meno ragionevole.
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